Italo Calvino, La formica argentina

Italo Calvino, La formica argentina

Italo Calvino, La formica argentina

Nel racconto lungo La formica argentina (1952) Italo Calvino dà una prova già emblematica del realismo visivo con cui piega la scrittura a un abbraccio lenticolare della realtà: le cose sbalzano dalla pagina, nella loro evidenza fenomenica, catturate dalla presa totale di uno sguardo che “è” mondo, ovvero coscienza oggettiva dei livelli che permette di attraversare e comprendere nell’ottica della loro stessa profondità. E questa coscienza oggettiva si traduce – pur filtrata dagli occhi dell’io narrante protagonista – in una sequenza continua di “correlativi” potentemente icastici, mediante cui le cose emergono per manifestarsi “in soggettiva”, spinte dalla forza che le fa essere esattamente quali sono. Il racconto è per certi versi profetico degli sviluppi che poi avrà la narrativa di Calvino: qui, evolvendo dall’imprinting marxista, lo scrittore comincia a percepire la dimensione problematica e labirintica della realtà, che rende improbabile una sua lettura semplicistica, conformata cioè a un modello univoco e lineare – tra storia e natura – dei processi in gioco. Il confronto con l’alterità irriducibile del dato biologico prelude agli sviluppi ecologici de La speculazione edilizia (1957) e de La nuvola di smog (1958), nonché a quelli scientifici-fantascientifici de Le cosmicomiche (1965) e Ti con zero (1967). Quali sono i limiti della coscienza umana e le possibilità che ha l’intellettuale di intervenire sulle cose non solo per comprenderle dall’interno delle loro continue modificazioni, ma anche per modificarle a vantaggio della società? 

   Lo snodo energetico da cui si dipana il racconto è l’aspettativa di speranza di un proletario che, con la moglie e il loro bambino, si trasferisce nella Riviera di Ponente ligure, dove gli sembra di potersi sistemare bene per la natura amena («il cielo e il verde erano allegri») e per i precedenti positivi di uno zio, di nome Augusto, che li ha incoraggiati ad andarci nella prospettiva di una vita migliore. La speranza, tuttavia, non riesce a vincere il magone di una tristezza che pesa come un macigno sul bordo della disperazione. Riflette il protagonista: «Ma così com’eravamo, col bambino appena guarito, il lavoro ancora da trovare, appena potevamo accorgercene, di queste cose che erano bastate, a zio Augusto, per dirsi contento». Anzi, il contrasto accentua l’amarezza: «in un paese contento ci sembravamo più disgraziati ancora». Vivono giorni di inquietudine e incertezza, come il «senso di addentrarsi in un difficile mare». La casa è modesta, «una stanza divisa in due da un tramezzo; quattro mura e un tetto», ma cercano di adattarsi. La presa di possesso di quel luogo dà «per la prima volta l’idea d’una continuità» della loro vita come possibilità aperta e reale.

   Ecco uscire, però, la barba della radice maligna che soggiace ai tentativi faticosi di costruzione: le formiche! Tutto il territorio ne è infestato, ne hanno fatto il loro “impero” (per citare un romanzo d’inizio ‘900 di H. G. Wells, L’impero delle formiche, che Calvino non può non aver tenuto presente), e insomma sono ovunque: «una fila fitta che traversavano il muro e venivano dalla cornice della porta e chissà donde avevano origine (…) formiche minuscole e impalpabili che muovevano senza posa come spinte dallo stesso sottile prurito che ci davano (…) vellichio fastidioso che si spargeva in ogni direzione». Fin dal primo apparire nel racconto, le formiche assurgono alla statura simbolica di nemico pervasivo e invincibile, contro cui sembra inutile lottare. La moglie del protagonista «era presa dalla furia di distruggere o disperdere quella fila di formiche di sul muro, e ci passava col taglio della mano, e non otteneva che di farsi venire formiche addosso e di sparpagliarne altre intorno». La casa è tutta «informicata», cioè piena e nera di formiche, sui mobili, sulle mensole, sui muri, anche sul rubinetto e nei cibi. Il protagonista segue le file delle formiche sui muri «per vedere donde venivano», ma più cerca di raggiungere la verità e più essa si allontana: «più guardavo e più scoprivo nuove direzioni nelle quali le formiche andavano e venivano (…) m’accorsi che quel brulicare silenzioso e quasi invisibile continuava per terra, in tutte le direzioni, tra l’erbaccia. Pensavo: come potremo cacciare mai le formiche di casa?». Migliaia di formicai sotterranei eruttano continuamente i «milioni di formiche di cui eravamo circondati», per cui «avevamo di fronte un nemico come la nebbia o la sabbia, contro cui la forza non vale». Ecco che la tristezza varca il confine e lascia il passo alla disperazione da cui i protagonisti si sentono, ormai, invasi. Sono anche inutili i rimedi dei vicini, il signor Reginaudo e la moglie: ad ogni tentativo di arginarle o di eliminarle (per esempio con i preparati chimici, gli insetticidi, ecc.), le formiche rispondono con contromisure pari e contrarie: «– E c’è qualcosa che serve davvero? – chiesi. Smisero di ridere. – No, niente, – risposero». Ma il capitano Brauni, che vive nei paraggi, si è spinto più a fondo: «ha inventato un sistema per sterminare la formica argentina», cioè il problema nella sua essenza, trasformando il suo giardino in una «parata di supplizi» cioè di trappole per stordire e uccidere le formiche («una media di 40 al minuto» ovvero «duemilaquattrocento l’ora»), che poi raccoglie dentro sacchi pieni «come di posa di caffè», una «soffice sabbia nero-rossastra di formiche morte tutte raggomitolate». L’obiettivo è quello di uccidere così tante formiche operaie da affamare le regine.

E le dico che un giorno vedremo le regine uscire dal formicaio in piena estate, e trascinarsi a cercare il cibo con le proprie zampe… Sarà la fine per tutte, allora…

Però c’è anche chi come la padrona di casa, la signora Mauro, nega il problema: gli ammennicoli borghesi (tendaggi, tappezzerie, mobili, arredi) servono a «nascondere la presenza di fiumi di formiche che certo percorrevano le vecchie case dalle fondamenta al tetto»; se poi le formiche escono allo scoperto, basta cacciarle via con la scopa; e del resto lì da lei non succede perché le formiche abbondano «dove non si fa bene pulizia» mentre «qui teniamo tutto come uno specchio». In realtà la decisione con cui la signora Mauro occulta il problema («– Si stanno propagando anche qui da lei? – chiese mia moglie quasi sorridente. – Qui no! – fece pallida la signora Mauro» ma nel frattempo striscia il gomito contro il fianco come per un prurito o un pizzicore) ne rivela la maggiore consistenza. L’unico consiglio che la signora Mauro sa dare è «tener bene la casa e lavorare la terra. Non c’è altro rimedio. Il lavoro: solo il lavoro».

   Di cosa è simbolo, ovvero metafora profonda e universale, la formica? Il male di vivere? L’orrore annidato dentro la creazione? La ferocia della natura? Il pensiero della morte e la morte stessa? Qualcosa sicuramente che si tiene a bada con il lavoro e l’attività riordinatrice del caos, cioè riempiendo il vuoto di diversivi, progetti da elaborare, obiettivi da raggiungere e anche, sì, illusioni con cui rendere più agevole il cammino. Forse la formica simboleggia la povertà, quella creaturale e materiale, da cui «quest’aria di nascondere le formiche come fossero una vergogna» che irrita il protagonista. C’è poi il signor Baudino, cioè il rappresentante istituzionale della battaglia che unisce gli uomini in fronte comune, l’Ente per la lotta contro la formica argentina. Un prete? Un politico? Un burocrate? Sicuramente uno che tradisce le aspettative, ché invece di combattere le formiche sembra dar loro il «ricostituente», da cui l’«astio generale» perché – pur di non perdere l’impiego – sembra stare più dalla parte della formica che da «quella dei cristiani». A un certo punto la moglie del protagonista guida un piccolo corteo di rivolta contro Baudino, ma senza risultati perché il seguito si disperde e le frasi di minaccia restano senza eco mentre «gli abitanti riprendevano la loro misera vita assieme alle formiche». La rivolta fallisce, e allora il protagonista va sbollire la rabbia e a purificarsi, con moglie e figlio, nella smemorante bellezza del mare al tramonto:

L’acqua era calma, con appena uno scambiarsi continuo di colori, azzurro e nero, sempre più fitto quanto più lontano. Io pensavo alle distanze d’acqua così, agli infiniti granelli di sabbia sottile giù nel fondo, dove la corrente posa gusci bianchi di conchiglie puliti dalle onde.

La natura, insomma, è senza dubbio feroce e indifferente, ma conserva in sé una purezza che l’uomo, incatenato agli inferni della sua “civiltà”, tenta invano di recuperare. La tragedia dell’uomo nasce appunto dal contrasto tra la natura e la civiltà, ovvero tra la civiltà come argine necessario alla violenza della natura e, d’altra parte, come veicolo di un disagio che solo evolvendosi all’interno stesso della natura può essere sciolto e, forse, superato. Il passaggio dalle formiche infestatrici (che vogliono riconquistare la natura usurpata dal cemento e spingere l’uomo a uscire dalle gabbie della sua artificiosa anestesia) alla catarsi finale del mare calmo rappresenta proprio questa duplice possibilità di rapporto con la natura, ostile o benigna a seconda dell’equilibrio con cui riusciamo a rapportarci con le cose e ad esserne parte.      

Marco Onofrio                    

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